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storia

Foibe: domenica programmazione speciale Rai per Giorno Ricordo + Foto album

Pubblicato su da Grunf

Roma, 9 feb - In memoria dei martiri delle foibe e dei profughi giuliani, istriani e dalmati, una programmazione speciale attraversera', domenica 10 febbraio, il palinsesto dei canali generalisti e specializzati delle testate Rai, televisive, radiofoniche e web.

Un impegno il servizio pubblico ripete per il nono anno consecutivo, in occasione del ''Giorno del ricordo'', istituito con la Legge n. 92 del 2004, ricorrenza civile che si celebra appunto il 10 febbraio per non dimenticare un periodo drammatico della nostra storia per troppo tempo sottaciuto.

Dopo l'armistizio dell'8 settembre e fin dopo la primavera del 1945, 350mila italiani furono perseguitati e costretti a lasciare le loro case in Istria e Dalmazia e molti altri fucilati e gettati nelle voragini carsiche perche' considerati ''nemici del popolo'' dalle milizie partigiane del maresciallo Tito. Le trasmissioni in tv e alla radio rievocheranno quei tragici eventi con film e fiction, servizi e approfondimenti in una lunga staffetta informativa.

La programmazione, pensata da reti e testate, e' partita giovedi' 7 febbraio su Rai3, con Geo&Geo che ha ospitato in studio lo storico dell'arte Costantino D'Orazio per parlare della Foiba di Vasovizza, dichiarata monumento nazionale nel 1992. E' proseguita su Rai2 nella puntata dei Fatti Vostri dell'8 febbraio, con ospiti in studio Nicolo' Molea, figlio del maresciallo Domenico Molea, una delle prime vittime della violenza titina, e lo scrittore Diego Zandel, nato nel 1948 nel campo profughi di Servigliano (Marche) che raccoglieva gli esuli italiani dell'Istria, Fiume e Dalmazia in fuga dalla Jugoslavia di Tito.

Sempre su Rai2, il Tg2 Storie, condotto da Maria Concetta Mattei, in onda sabato 9 febbraio alle 24.15 su Rai2, proporra' un reportage di Marco Bezmalinovich. Nel Giorno del Ricordo, poi, una serie di programmi si alterneranno sulle diverse reti. Rai1 ritrasmettera', nella notte tra domenica 10 e lunedi' 11 febbraio, una delle fiction piu' belle e di successo interpretate da Giuseppe Fiorello, con Leo Gullotta e Antonia Liskova, ''Il cuore nel pozzo''.

Nel pluripremiato film di Alberto Negrin, le ultime convulse fasi della Seconda Guerra mondiale in Istria, la tragedia della comunita' italiana e degli infoibati, raccontate attraverso gli occhi di un bambino in fuga che annota sul diario gli orrori vissuti.

Rai Educational, il 10 febbraio, alle 24.00 e in replica alle ore 8.30, 13.30 e alle 20.30, trasmettera' su Rai Storia - Digitale terrestre e Tivu'Sat, per Res Gestae - Fatti e Personaggi, il racconto di Roberto Napoletano, direttore de ''Il sole 24 ore'', che ricorda quando il Parlamento italiano scelse il 10 febbraio come Giorno in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriano-dalmati, costretti ad abbandonare le loro case dopo la cessione di Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia, a seguito della sconfitta dell'Italia nella seconda guerra mondiale.

Il canale Rai Premium trasmettera', invece, in prima e seconda serata il film di Michele Soavi ''Il sangue dei vinti'', ispirato al libro di Giampaolo Pansa, con Michele Placido e Barbora Bobulova nella versione televisiva in due parti.

In questa giornata tutte le edizioni di Tg e Gr si occuperanno dell'argomento. In particolare il tema sara' ricordato con servizi della TGR, in Buongiorno Regione e nel Settimanale del Friuli Venezia Giulia. Il Tg1 se ne occupera' anche lunedi' 11 febbraio alle 9.05 in una puntata del Tg1Storia nella quale Roberto Olla proporra' estratti dell'intervista a Graziano Udovisi, unico sopravvissuto alle foibe. Nell'occasione saranno utilizzati i filmati originali girati nel 1945 dai vigili del fuoco durante le prime riesumazioni nelle foibe d'Istria. Lunedi' 11, inoltre, RaiNews a partire dalle 12.00 seguira' in diretta dal Quirinale, la celebrazione ufficiale del Giorno del Ricordo, alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Per Televideo sara' la redazione Cronaca e Cultura a realizzare uno speciale pubblicato alla pagina 180. Sul tema sara', inoltre, curato un approfondimento specifico che trovera' posto sul sito web della Testata. Sul web anche un grande Speciale Giorno del Ricordo proposto da Rai.tv.

La radio dedichera' alla ricorrenza spazi di approfondimento nella giornata di domenica 10 febbraio. Su Radio1, in diretta dalle 10.10 alle 11.00, ''Speciale Giornale Radio sul giorno del Ricordo'' a cura del vicedirettore della rete Stefano Mensurati. Inoltre, all'interno di tutte le edizioni del Gr1, notizie e approfondimenti sull'anniversario.

Diretta anche su Radio2 all'interno del programma ''Radio2 Days'', dalle 18.00 alle 19.30, con Michele Cucuzza. Radio3 dedichera' alle foibe il Concerto in diretta dal Quirinale, che si terra' a partire dalle 11.50 nella Cappella Paolina.

Infine Gr Parlamento si occupera' dell'argomento sempre domenica, dalle 9.30 alle 10.30 nella rubrica ''Pagine in frequenza'' e dalle 15.00 alle 15.15 nella rubrica ''I libri a Grp''.

Foibe: domenica programmazione speciale Rai per Giorno Ricordo + Foto album
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Commemorazione del GIORNO DEL RICORDO Arona

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15 ANNI FA LA TRAGEDIA DEL CERMIS (Video)

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Inghilterra, ritrovato lo scheletro del re Riccardo III (Foto)

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Durante gli scavi in un parcheggio di Leicester

Lo scheletro era stato rinvenuto il 12 settembre scorso nel luogo dove sorgeva la chiesa in cui si pensa venne sepolto Riccardo III, demolita nel 1530. Per aver la certezza è stato paragonato il Dna del re con quello di un discendente di 17esima generazione

Londra, 4 febbraio 2013 - Lo scheletro rinvenuto in un parcheggio della città inglese di Leicester apparteneva, “oltre ogni ragionevole dubbio”, a re Riccardo III. E’ quanto hanno annunciato oggi gli studiosi dell’Università di Leicester, impegnati da mesi nelle ricerche dei resti del re.

Lo scheletro era stato rinvenuto il 12 settembre scorso nel luogo dove sorgeva la chiesa in cui si pensa venne sepolto Riccardo III, demolita nel 1530. Le caratteristiche dello scheletro, quali una spina dorsale deforme e ferite alla testa, collimavano con le informazioni sulla morte del re, avvenuta in battaglia nel 1485.

Gli archeologi hanno condotto gli scavi nel luogo dove sorgeva la chiesa, in cui si pensa venne seppelto Riccardo III. La chiesa venne demolita nel 1530.

Gli scienziati hanno usato il Dna di un lontano parente del re per avere conferma dell’identità dello scheletro. Si tratta di Michael Ibsen, 55 anni, discendente di 17esima generazione di Riccardo III.

Inghilterra, ritrovato lo scheletro del re Riccardo III (Foto)
Inghilterra, ritrovato lo scheletro del re Riccardo III (Foto)
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Un libro racconta come Hitler diede la caccia a Tito

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La mattina del 25 maggio 1944, giorno del suo compleanno, il maresciallo Josip Broz Tito sentì il rombo di due aeroplani provenire dalla vallata sottostante il suo imprendibile rifugio scavato in una caverna sulle pendici della montagna alle spalle di Drvar, piccola cittadina della Bosnia nord-occidentale. Quella mattina Tito non doveva trovarsi lì, ma nel segretissimo rifugio di Bastasi, cinque chilometri più in là. Invece la sera prima era andato a vedere un film e il giorno dopo voleva festeggiare il suo compleanno con i giovani comunisti di Jugoslavia. Perciò il comandante degli otto corpi mobili partigiani che, assieme ad altre 26 divisioni, stavano dando seri grattacapi alle forze d’occupazione naziste era rimasto nella base di Drvar.

Quando uscì di corsa dalla caverna per vedere cosa stesse accadendo, Tito vide dietro ai due bombardieri Junkers 87 Stuka in picchiata comparire altri apparecchi, più lenti: erano alianti dai quali si stavano lanciando ottocento paracadutisti. Il maresciallo non poteva ancora saperlo, ma quei puntini bianchi nel cielo erano gli uomini del 500° battaglione paracadutisti SS, un’unità di disciplina composta in buona parte da soldati arruolati nelle prigioni e nei campi di concentramento dov’erano rinchiusi per reati di vario genere, giovani che non avevano nulla da perdere e tutto da guadagnare. Il lancio dei parà era l’azione di punta dell’operazione Rösselsprung, “mossa del cavaliere”, un audace attacco coadiuvato da forze di terra che aveva lo scopo di circondare il quartier generale dei partigiani e colpire proprio lui, il maresciallo Tito, catturarlo o ucciderlo.

Ciò che accadde prima, durante e dopo il blitz delle forze speciali tedesche contro la roccaforte dei partigiani jugoslavi lo racconta ora lo storico britannico (nonché ufficiale della Royal Air Force impiegato anche in Afghanistan) . David Greentree nel libro “Caccia a Tito” (pagg. 126, Euro 16,00), pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana nella collana Bam-Biblioteca d’arte militare (tradotto da Rossana Macuz Varrocchi, illustrazioni di Johnny Shumate e Mark Stacey), e da oggi nelle librerie. Come nella trama di un film, con l’ausilio di rare fotografie scattate dai giornalisti al seguito della missione e cartine illustrative, Greentree ricostruisce momento per momento la battaglia di Drvar, dalla quale Tito riuscì a sfuggire per un soffio. Da bravo storico militare, l’autore entra nel dettaglio degli armamenti e delle formazioni in campo, analizzando errori, successi e tattiche, spostando il punto di vista da uno schieramento all’altro. Il risultato è un racconto serrato che mette in rilievo alcuni fattori in apparenza minori ma che alla fine, messi insieme, risultarono determinanti per l’esito dei combattimenti. Come ad esempio le armi e munizioni che i partigiani avevano sottratto all’esercito italiano dopo l’8 settembre, in particolare i piccoli e maneggevoli carri armati leggeri CV 35, che i tedeschi non si aspettavano di trovare a bloccare loro il passo. O l’impiego massiccio dell’aviazione angloamericana, una volta che gli alleati si erano resi conto di cosa stesse accadendo. Che i tedeschi stessero tramando qualcosa l’intelligence lo sapeva, gli esperti del controspionaggio di Bletchley Park avevano decrittato numerosi messaggi. Ma nessuno era riuscito a mettere insieme il puzzle delle informazioni, e l’attacco tedesco a Drvar aveva colto tutti di sorpresa. La reazione degli alleati fu immediata, guidati dagli osservatori partigiani a terra i bombardieri B17 e i caccia P38 picchiarono duro sugli assalitori mettendo presto fuori uso anche l’aviazione tedesco-croata.

Ma, nota Greentree, se Tito potè uscire indenne dalla sacca di Drvar fu soprattutto per merito del coraggio dei suoi uomini. Pur essendo riuscito ad allontanarsi da Drvar, Tito restava vulnerabile: «L’operazione Rösselsprung avrebbe ancora potuto intercettarlo lungo la strada su cui stava cercando la salvezza, se non fosse intervenuta la difesa organizzata dai partigiani e in particolare dalla 1.a divisione proletaria che affrontò la 7.a divisione SS “Prinz Eugen”».

La battaglia durò dieci giorni e costò la vita a 1.916 partigiani, mentre altri 161 furono catturati e 35 disertarono. «Le perdite dei tedeschi - nota Greentree - furono ufficialmente di 213 soldati caduti, 881 feriti e 57 dispersi: numeri di gran lunga inferiori alla realtà». Dopo una lunga fuga nei boschi e poi in treno accompagnato dai suoi fedelissimi e dall’amato pastore alsaziano Tiger (che il maresciallo avrebbe confessato di aver pensato più volte di sopprimere perché i suoi guati rischiavano di farlo scoprire, ma di non averne avuto il coraggio), Tito accettò l’evacuazione a condizione che gli venisse data la possibilità di stabilire il suo quartier generale a Lissa. Il 3 giugno un aereo sovietico atterrò sulla pista di Kupresko Polje e portò il maresciallo a Bari, dove trascorse due notti prima di imbarcarsi sul cacciatorpediniere “Blackmore” e salpare per Lissa accompagnato dal diplomatico, militare e scrittore Fitzroy MacLean. Arrivato a Lissa, scrive Greentree, Tito «ancora una volta stabilì il suo quartier generale in una caverna sulle montagne. “Il più grande nemico” era di nuovo al timone del comando». In un primo momento i comandi germanici pensarono di spedire i feroci parà del 500° battaglione SS anche su Lissa, poi lasciarono perdere, e il reparto speciale, promosso e non più disciplinare, continuò a operare su altri fronti oltre le linee nemiche fino agli ultimi giorni di guerra.

«A Drvar - conclude il suo libro lo storico britannico - Tito rischiò e mise in pericolo l’intera struttura di comando. L’operazione aviotrasportata fu quella che portò i tedeschi vicinissimi al loro scopo, cioè alla cattura del maresciallo. Se ce l’avessero fatta, probabilmente l’esito della guerra partigiana non sarebbe stato diverso, ma nel medio termine i tedeschi avrebbero avuto come avversario un movimento partigiano confuso e senza un vero leader». Più pesanti sarebbero state invece le conseguenze per il futuro della Jugoslavia: Stalin ne avrebbe potuto fare un boccone.

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Busto di Mussolini, Minutillo attacca: Comunisti nervosi

Pubblicato su da Grunf

Continua il dibattito sul busto di Mussolini a Cesenatico. Francesco Minutillo, segretario provinciale del partito La Destra, non si è detto sorpreso della "rabbiosa reazione della sinistra". Tuona Minutillo, evidenziando che "si rivelano per quello che sono e sono sempre stati: dei comunisti fino al midollo che non accettano alcuna lezione quando si parla del ventennio ed hanno anzi l'arroganza di poter essere gli unici ad avere il diritto di scrivere di storia".

"E' bastato un busto in bronzo di Mussolini per mettere in fibrillazione l'intera riviera romagnola sinistroide: evidentemente sono nervosi perchè si stanno rendendo conto che ogni giorno perdono consensi e anche questa volta rischiano seriamente di fare la fine della gloriosa macchina da guerra di Achille Occhetto", continua Minutillo.

L'esponente de "La Destra" plaude "al sindaco Buda che dimostrato di saper spezzare gli schemi imposti dalla sinistra a Cesenatico in questi anni. Tenga duro e non si lasci intimidire dalle vili aggressioni verbali di gente che deve capire che la Romagna non più la terra rossa nella quale si sono crogiolati negli ultimi sessant'anni, soprattutto quando si tratta di storia".

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IL CASO DELL’ISOLA CALVA – GOLI OTOK - 16.105 torturati nel gulag di Tito

Pubblicato su da Ugo Pennati

 IL CASO DELL’ISOLA CALVA – GOLI OTOK -  16.105 torturati nel gulag di Tito

L' isola Calva, spunta dal mare all' improvviso. Un fungo bianco, spettrale. Una pietraia bruciata dal sole, abitata dalle capre, che nasconde uno dei segreti più orribili del dopoguerra. Un segreto durato quarant' anni e svelato solo oggi : un gulag in mezzo all' Adriatico, voluto da Tito. A Goli Otok, l' isola calva, dieci miglia a nord- est di Rab, nelle acque del Quarnero, finirono gli oppositori del regime jugoslavo. Dal 1949 al ' 56 vennero confinati oltre trentamila prigionieri politici. Più di quattromila morirono sull' isola deserta in seguito alle terribili torture ricevute. Altri si suicidarono, molti impazzirono. La ferocia degli aguzzini era peggiore di quella dei lager di Hitler e dei gulag di Stalin : "Meglio un mese a Dachau che un' ora a Goli" ha raccontato un italiano, Mario Bontempo, prigioniero nei lager nazisti prima e nel gulag jugoslavo dopo. "La ferocia che conobbi in quel gulag penso non sia stata conosciuta in alcun lager d' Europa" ha detto il poeta Ante Zemljar. Il silenzio sugli orrori di Goli Otok è durato quarant' anni. Un silenzio imposto agli ex deportati con la paura, le minacce, i ricatti, le persecuzioni. Non si doveva far sapere nulla al mondo. Neanche dell' esistenza di Goli Otok. "Abbiamo continuato a rimanere prigionieri per altri quarant' anni - racconta Zemljar - abbiamo dovuto rinunciare a scrivere e a parlare". "Vojo Popovic, uno dei comandanti del lager - ricorda un altro italiano prigioniero nell' isola, Silverio Cossetto - diceva a chi stava per tornare in libertà : "Quello che avete visto e vissuto qui deve rimanere dentro di voi. State attenti a quel che dite se non volete tornare indietro". La verità sugli orrori di Goli, campo di concentramento per comunisti voluto dai comunisti, si scopre adesso perché i sopravvissuti cominciano a parlare. Solo che la Jugoslavia non c' è più, ora possono farlo senza la paura di essere perseguitati dal regime. E raccontano che nel gulag voluto da Tito, Milovan Gilas, Aleksandar Rankovic, Svetozar Vukmanovic, Edvard Kardelj, finirono per anni, torturati e massacrati senza aver mai subìto un processo, generali, ministri, ufficiali, ex combattenti di Spagna, militanti comunisti, magistrati, scrittori, poeti, intellettuali. Quelli che avevano già combattuto nella guerra di Spagna e nella guerra partigiana, quelli che avevano già conosciuto le carceri fasciste e quelle naziste, ma che "mai avrebbero potuto immaginare - racconta Luigi Andrea Scano, veterano del Pci, ferito in Spagna - quello che li attendeva nei campi di deportazione inventati dai comunisti jugoslavi". E gli aguzzini di Goli, quelli ancora vivi, sono tutti in libertà. Ma i familiari delle vittime cominciano a chiedere giustizia. "Se esiste uno solo dei responsabili dei patimenti di mio padre, chiedo che venga processato e condannato" grida, Laura Baccarini.Le prime rivelazioni sul gulag di Goli le ha raccolte uno scrittore di Fiume, Giacomo Scotti, che si è messo a cercare altre testimonianze, è andato a rovistare negli archivi del vecchio regime jugoslavo e della spietata polizia segreta, l' Udba, ed ha appena pubblicato un libro, Goli Otok, per le Edizioni Lint di Trieste, in cui svela questa sanguinosa pagina di storia che la Jugoslavia era riuscita a tenere nascosta. Scotti è un omino piccolo e magro di 64 anni. Napoletano di Saviano, vive a Fiume da quando ne aveva 19. Scrittore e giornalista, ha pubblicato un' ottantina di libri, soprattutto di carattere storico. E' stato perseguitato anch' egli, per dissidenza politica, dal regime jugoslavo. Arrestato più volte, espulso dal partito comunista jugoslavo, dalla società dei giornalisti, privato della firma, del posto di redattore alla Voce del popolo, mandato a lavorare al porto. Viaggiamo, insieme a Scotti, per Goli Otok. Scendiamo da Fiume verso Spalato lungo la litoranea. A Jablanac traghettiamo per l' isola di Arbe. Non c' è un turista in giro. Ogni tanto incrociamo le camionette della guardia nazionale croata. A bordo ci sono dei giovani in tuta mimetica. A Arbe risaliamo tutta l' isola fino a Loparo, all' estremo nord. Da qui non ci sono più mezzi. Bisogna trovare una barca per andare all’isola Calva. Chiediamo a un pescatore. E' un omone con la faccia tagliata dalle cicatrici. Risponde con una smorfia, ma fa segno di salire. Durante il viaggio racconta di aver lavorato a Goli per 25 anni. Adesso vive pescando saraghi e scarpene. Si chiama Ante Sanic, ed è stato l' ultimo direttore dell' isola, quando il gulag venne trasformato in un penitenziario per detenuti comuni. Quattro anni fa, nell' 88, è stato chiuso anche il carcere, e adesso l' isola, 4 km. quadrati, è deserta. Sono rimasti due custodi a far la guardia ad un pugno di edifici diroccati e ad un ristorante chiuso. Avevano tentato di farci arrivare i turisti, ma non ha funzionato. E' rimasto solo un cartello con la scritta "Benvenuti" in quattro lingue. E tutt' intorno i segni e i fantasmi di un passato difficile da cancellare. "Quando i prigionieri sbarcavano qui, dal battello che li aveva prelevati a Buccari, il ' Punat' - racconta Scotti - subivano la prima, durissima tortura: lo ' stroj' . Dovevano passare, camminando a piedi nudi su un sentiero di pietre aguzze, in salita, per quasi un chilometro, tra due ali di prigionieri che li insultavano e li picchiavano a morte, con pugni, pietre e bastoni. Erano prigionieri arrivati prima di loro, che venivano costretti a trasformarsi in aguzzini. Altrimenti sarebbero stati torturati anche loro. Una sorta di autorepressione". "In quella specie di tunnel - racconta Giannetto Stuparich - i malcapitati subivano un pestaggio feroce che non cessava un istante. Vidi cadere molti per terra sotto i colpi ricevuti e purtroppo non arrivarono alla fine". "Se si pensa che lo ' stroj' era formato da alcune migliaia di picchiatori - aggiunge lo scrittore serbo Dragoslav Mihailovic, anch' egli prigioniero a Goli - ci si può fare una pallida idea delle torture che subivano i deportati". I prigionieri erano costretti a spaccar pietre con le mani, a estrarre la sabbia dal mare stando in acqua anche d' inverno, a correre su e giù per l' isola portando sulle spalle massi pesantissimi. I più "pericolosi" erano rinchiusi in un buco profondo otto metri, il "Reparto R 101". Pochi ne uscivano vivi. Non mangiavano quasi niente, non erano curati quando stavano male, venivano picchiati continuamente e selvaggiamente, costretti a denunciare amici e parenti, a firmare impietose autocritiche. E chi non obbediva non aveva scampo. Veniva condannato al "bojkot", la punizione più drastica : anche un anno di "disprezzo collettivo" da parte dei compagni, di sputi, insulti, di lavori più duri, di notti in piedi, di bastonature continue con fruste con l' anima d' acciaio. Ma si poteva anche finire legati sulla pietraia ad arrostire al sole, torturati fino alla morte come il generale Mirko Krdzic, fino a impazzire dal dolore come il poeta Stevan Mitrovic, o uccisi a bastonate come il professor Blazo Raicevic, come l' italiano Mario Quarantotto. Sull' isola, oggi, ci sono ancora i segni dell' orrore. Il molo costruito dai prigionieri, il sentiero dello "stroj", la cava di pietra, le officine abbandonate, gli edifici delle guardie, le torrette. Sono rimasti gli attrezzi da lavoro arrugginiti, i martelli, i picconi, le vanghe, le foto delle squadre di calcio alle pareti, i ritratti di Tito spezzati e gettati a terra, i nomi dei prigionieri sulle pietre, le scritte sui muri : "Titov put nas je put", "la strada di Tito è la nostra strada". Vecchi tubi di ferro, nell' inferno deserto, cigolano sotto la bora che scende dal Velebit. "A Goli lasciai la mia umanità, la mia dignità, il mio essere uomo, l' anima mia - racconta Aldo Juretich, un altro dei deportati - non mi sono mai ripreso, non sono stato più capace di essere me stesso".

Fonte:dall’archivio di Repubblica,27 giugno 1992

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Happy Birthday Robert E. Lee!!!

Pubblicato su da Ugo Pennati

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Morto Prospero Gallinari: ex Br, fu uno dei carcerieri di Moro

Pubblicato su da Grunf

L'ex brigatista rosso Prospero Gallinari è stato trovato morto questa mattina in auto, nel garage della sua abitazione a Reggio Emilia. Aveva 62 anni: era nato a Reggio il 1° gennaio 1951.

Gallinari è stato stroncato probabilmente da un infarto e sono state donate le cornee. L'allarme è stato dato da un vicino.

Nel 1969 Gallinari aderì al 'gruppo dell'Appartamento', a Reggio Emilia, con Alberto Franceschini, Tonino Paroli e ad altri dissidenti del Pci che dopo il Convegno di Pecorile, sulle colline reggiane, decisero di iniziare alla lotta armata. Durante l'arresto nel 1979 venne ferito dalla polizia.

Gallinari fu uno dei carcerieri di Aldo Moro - nel primo processo fu condannato all'ergastolo, sentenza confermata poi nei procedimenti successivi - e di lui si parlò come l'esecutore materiale dell'omicidio dello statista democristiano. Nel 1993 però Mario Moretti lo discolpò e si assunse la responsabilità dell'omicidio in un libro-intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca.

In quel periodo Gallinari uscì dal carcere per motivi di salute, legati in particolare a seri problemi cardiaci. Nel marzo 2006 Bompiani pubblicò 'Un contadino nella Metropoli', libro di memorie dell'ex brigatista.

LA STORIA. Gallinari nasce a Reggio Emilia il primo gennaio 1951. A quattordici anni si iscrive alla Fgci reggiana e inizia a frequentare il circolo Gramsci, punto di ritrovo di due generazioni: la sua e quella dei partigiani. Con lui, Alberto Franceschini e Roberto Ognibene. Dopo i primi contrasti con la linea del partito nasce l'idea di ritrovarsi per proprio conto in un appartamento, in via Emilia San Pietro. Alla fine degli anni 60 il gruppo lascia il Pci. Nel novembre del 1969 Gallinari partecipa all'assemblea costitutiva del Cpm, il Collettivo politico metropolitano, a Chiavari.

E' dell'agosto 1970 il convegno di Pecorile, in provincia di Reggio Emilia, in cui vengono fondate le Brigate Rosse. Dalle quali Gallinari si allontana poco dopo, per seguire Corrado Simioni, che ha appena rotto con Renato Curcio. Nel 1973 ritorna, insieme a Mario Moretti.

Operaio, negli anni 70 viene arrestato per la prima volta a Torino il 30 ottobre 1974. Nel maggio 1976 e' tra i ventitrè imputati del processo di Torino, per i fatti dal febbraio 1973 (sequestro Labate) a fine 1975 (il sequestro del giudice Sossi). Il 2 gennaio del 1977 evade dal carcere di Treviso insieme ad altri dodici detenuti per reati comuni. Arriva a Roma nell'aprile del 1977 e si unisce alla Colonna romana. Il 16 marzo 1978 partecipa alla strage di Via Fani e al sequestro di Aldo Moro. E' tra gli inquilini di Via Montalcini, insieme ad Anna Laura Braghetti e a Mario Moretti.

L'ARRESTO. Gallinari viene arrestato il 24 settembre 1979 da personale della Questura, mentre nel centro di Roma monta una targa falsa a un'auto rubata. Nel conflitto a fuoco, le forze dell'ordine lo colpiscono alla testa. Con lui c'è la compagna Mara Nanni. Tra i documenti sequestrati a Gallinari, un piano particolareggiato per un'incursione di brigatisti sull'isola dell'Asinara, allo scopo di provocare una evasione in massa dei detenuti politici. Durante gli anni di prigionia, non ha mai collaborato con i magistrati.

Il 23 ottobre 1988, dal carcere di Rebibbia, Gallinari e altri brigatisti rossi, tra cu Francesco Lo Bianco e Bruno Seghetti, inviano alla stampa un lungo documento per dire che la "guerra è finita" e lo Stato "ha vinto". Il 24 dicembre 1988, in un altro documento affermano che tutti i militanti delle formazioni armate sono stati arrestati. Nella metà degli anni Novanta, a causa di gravi motivi legati alla salute, dopo quindici anni di prigione Gallinari ottiene i primi permessi premio per poter tornare a casa.

Il primo dicembre 1990, il Tribunale di sorveglianza di Torino respinge la richiesta di differimento della pena avanzata da Gallinari, affetto da disturbi cardiaci. Nel 1996 la pena viene sospesa.

CURCIO: "Non ci sentivamo ma l'amicizia c'era sempre". "E' una notizia brutta, di quelle che nella vita non vorresti mai sentire. Ecco, non mi sento di dire altro. In questi casi, soprattutto per noi, tutto diventa personale e deve restare solo personale". Così Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, sulla morte di Prospero Gallinari. "Non avevamo più molti contatti, ci sentivamo una-due volte all'anno. E' un po' per tutti noi: è difficile che sia rimasta una frequentazione. Ma l'amicizia è rimasta sempre" aggiunge Curcio.

LO STORICO: "Batteva lui le lettere di Moro". "Fu una lettera di Prospero Gallinari alla sorella, nel 1975, recuperata dagli inquirenti, a farmi scoprire che era stato lui, uno dei carcerieri di Aldo Moro, a redigere la versione dattiloscritta di tutte le lettere del presidente della Dc dalla 'prigione del popolo' di via Montalcini a Roma". Così lo storico Miguel Gotor autore di due libri-inchiesta sul "memoriale Moro" e sulle lettere dalla prigionia brigatista del presidente Dc. "Di quelle lettere - aggiunge Gotor - le Br ne resero pubbliche solo una trentina, ma l'intero corpus fu battuto a macchina nel covo dove era tenuto prigioniero Moro. Il dattiloscritto, però, riportava alcuni evidenti errori di ortografia continuamente ripetuti: soprattutto l'accentazione dei pronomi personali. Quegli stessi errori sono presenti nella lettera di Gallinari alla sorella e, dunque, rendono possibile identificare l'autore del dattiloscritto"

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NEL PARCO DELLA CITTA' DI MILANO SI TENEVA UNA ESPOSIZIONE CANINA INTERNAZIONALE SOTTO L'ALTO PATRONATO DI S.M. IL RE AD OPERA DEL KENNEL CLUB ITALIANO CON QUESTO MANIFESTO NEL 1901

Pubblicato su da Ugo Pennati

NEL PARCO DELLA CITTA' DI MILANO SI TENEVA UNA ESPOSIZIONE CANINA INTERNAZIONALE SOTTO L'ALTO PATRONATO DI S.M. IL RE AD OPERA DEL KENNEL CLUB ITALIANO CON QUESTO MANIFESTO NEL 1901

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